(continuazione, v. n. precedente)
L’Architettura gotica, sorta probabilmente
nella Francia del Nord, fu importata in Italia, fin dal principio del secolo
XII, non solo per opera di Architetti Tedeschi e Francesi, ma anche degli
ordini Religiosi.
L’Italia, però, è buono farlo notare fin da
principio, era troppo attaccata alle tradizioni dell’antichità, e per
conseguenza non poteva offrire un terreno adatto per il pieno sviluppo di
quest’arte nuova, come lo aveva fatto invece la Francia e la Germania. Ecco
perché, osserva l’Enlart,[1]
non troviamo nei monumenti gotici Italiani, anche più importanti, come il Duomo
di Milano, quelle raffinatezze che realizzarono gli Architetti Francesi, in
fatto di equilibrio, di leggerezza, di ornamentazione.
In generale, possiamo affermare che, il goticismo,
non ha incarnata la vera coscienza nazionale. Se prendiamo infatti ad esaminare
alcuni dei monumenti più importanti, come per esempio le Chiese di Santa
Croce di Firenze, di Santa Maria Ara – Coeli a Roma: troviamo sempre
un’architettura i cui caratteri gotici, sono espressi con tale timidità da
sembrare che, con la singolare sostituzione dell’arco tondo all’arco acuto, la
Chiesa potesse prendere aspetto di opera Romanica o del Rinascimento.
Però come in Francia, così ancora in Italia, si
vennero man mano, formando varie scuole, le quali, pur conservando più o meno,
immutati i caratteri generali che contradistinguono l’architettura gotica
dalla romanica, si differenziano per delle particolarità create, unicamente
dal gusto e dall’indole degli architetti della regione, in mezzo a cui
fiorisce.
***
Tra le scuole gotiche Italiane, ve n’è una
che più si accosta al gotico Francesee specie a quello fiorito in
Provenza: è questa la Scuola Napoletana, comunemente conosciuta sotto il
nome di Scuola Angioina, appunto perché il suo fondatore si può
considerare Carlo I d’Angiò.
Divenuto infatti re delle Due Sicilie nel
1266, dopo cioè la celebre battaglia di Benevento, nella quale il povero
Manfredi finiva, così tragicamente la sua vita – Carlo, fa ben presto gettare
le fondamenta di parecchi edifizi, per la maggior parte religiosi, riuscendo
così a stabilire nel suo regno, per quanto modificato, quello stile gotico che,
non erano riusciti ad introdurvi i Cisterciensi, i Canonici di Barletta e gli architetti
di Federico II[2].
Tra le Chiese più importanti di questo primo
periodo, basta ricordare l’Abazia della Vittoria presso il lago Fucino;
e a Napoli S. Lorenzo Maggiore, la cui costruzione fu incominciata,
probabilmente, proprio nel 1266; e poi S. Eligio (1270); il Duomo
(1279); S. Domenico Maggiore (1285).
Non rechi meraviglia però se gli edifizi fatti
costruire da Carlo d’Angiò e dai suoi successori, incarnino meglio i caratteri
del gotico Francese. È ormai noto, come non solo Carlo I ma anche Carlo II,
si circondassero di una corte esclusivamente francese, ed a nobili francesi
(specie Provenzali), distribuissero tutte le signorie e tutte le cariche
pubbliche dello stato.
I Registri Angioini, conservati nell’Archivio di
Stato di Napoli, non solo ci ricordano i nomi dei signorotti che formavano la
corte di Carlo I e Carlo II, ma ancora di molti architetti Francesi che
vivevano, si può dire, a spese dello stato[3].
Tra gli altri, vanno ricordati quelli dei maestri
sorveglianti o sopraintendenti ai lavori di costruzione come”Roulin
de Fresnay, Adam de Saint Germain, Guillaume de Cosangres, Iehan de Verdy,
Guillot de Braye e Pierre d’Angicourt” che divenne poi il principale
architetto del re e sopraintendente ai lavori della corte[4].
Anzi, a proposito di quest’ultimo, giova notare che, se si tien conto della
speciale benevolenza di cui era circondato nella corte, tanto da esser chiamato
dal Carlo II “in aedificiarum Ecclesiarum et etiam aliarum expertum
operibus”, nessun dubbio vi può essere che proprio costui sia l’autore
delle più importanti costruzioni napolitane: quantunque la tradizione
l’attribuisca ad un certo Masuccio, personaggio leggendario[5].
Ora, ripeto, era più che naturale che la scuola
gotica Napolitana, sorta sotto gli auspici di sovrani francesi, incarnasse
più di qualunque altra scuola regionale italiana, i caratteri del gotico
fiorito sul suolo di Francia.
***
Non solamente nel Napolitano, però, esercitò la sua
grande influenza la scuola Angioina, ma in quasi tutta l’Italia
Meridionale.
Ho già avuto occasione di ricordare la celebre
Abazia della Vittoria, fatta costruire da Carlo I presso il lago Fucino,
nell’anno stesso in cui veniva assunto al trono, cioè nel 1266. Aggiungo ora che,
Chiese Angioine, sorsero a Lucera, a Barletta, a Monte Sant’Angelo, a
Messina e finanche negli Abruzzi. La Chiesa di Scurcola Marsicana
infatti, conserva tuttora un piccolo portale della fine del secolo XIV, con
caratteri eminentemente francesi.
Anche la Calabria adottò il sistema Angioino:
anzi si può dire che, la Calabria sia l’unica regione Meridionale, dove
persistettero più lungamente le forme Angioine.
***
In quanto alla pianta delle Chiese, gli Angioini
adottarono l’antico sistema meridionale della pianta cioè ad una navata con
transetto rettangolare. Su questo tipo infatti son costruite a Napoli, le
Chiese di S. Lorenzo Maggiore, Sant’Eligio, Santa Chiara.
Anche la pianta a tre navate è
frequentissima: però tanto nel primo che nel secondo sistema, lo stile è
piuttosto semplice ed uniforme. Cosicché, per formarsi un concetto adeguato del
gotico Angioino, non è assolutamente indispensabile, esaminare la maggior parte
dei monumenti da essi eretti, ma basta studiarne solo qualcuno. Finanche lo
stile dei monumenti civili e militari, come Castel Nuovo di Napoli e
quello di Castrogiovanni di Sicilia, è presso a poco identico a quello delle
Chiese.
Il Coro è ordinariamente pentagono:
non mancano però quelli di forma quadrata, come per esempio, è il Coro di
S. Michele a Monte Sant’Angelo.
Le Cappelle laterali al Coro, son quasi
sempre due e di forma rettangolare. Il Transetto, si trova
costantemente, e in qualche Chiesa, come S. Lorenzo Maggiore di Napoli, anche
il Deambulatorio. I pilastri che sostengono gli archi,su
cui è impostata la volta, son lisci, specie nelle Chiese del primo periodo. Le finestre
sono alte, strette, diritte: la luce è divisa, ordinariamente, da una o
più colonne,su cui poggiano piccoli archi trilobati,sormontati da
timpani e traforo.
Le mura delle Chiese, si elevano bensì
alte, ma non raggiungono gli slanci meravigliosi di quell’architettura, “che
sembre in patria sollevarsi ardita verso il cielo, quasi sottraendosi al
rigore delle leggi della gravitazione”[6].
***
Premessi questi pochi cenni, che ho creduti
indispensabili, intorno alla singolare architettura della scuola gotica
Angioina: mi permetto subito notare che, sul medesimo tipo Angioino, è condotta
la nostra Santa Maria a Marciano.
Né rechi ciò meraviglia, quando si consideri che, fu
essa costruita, secondo la tradizione, proprio da un capitano Francese, appartenente,
forse, alle milizie di Roberto d’Angiò, re di Napoli, e, nel periodo medesimo
in cui la scuola Angioina raggiungeva il suo massimo splendore. È naturale però
che, date le modeste condizioni finanziarie del pio fondatore, non poteva, la
nostra Chiesa, gareggiare, per vastità e splendore di ornamenti, con le Chiese
consorelle che venivano erette qua e là, quasi contemporaneamente, ed a spese
della stessa casa Angioina, tanto nell’interno della città di Napoli, quanto
negli altri paesi del Reame.
Ed ecco perché, dobbiamo contentarci di un tipo, il
più semplice, tra i tipi gotici Angioini.
Risulta infatti, nelle sue linee generali, di
un’unica navata con transetto, e di un Coro quadrato con
due Cappelline laterali. Tanto le volte che compongono le due campate
della navata, quanto quelle del transetto, del Coro e delle Cappelline,
sono a crociera ogivale con costoloni molto sporgenti.
È preceduto però, l’edifizio, da un Pronao,
piuttosto ampio, di forma leggermente rettangolare, con volta pure a crociera,
impostata su quattro archi a tutto sesto, che poggiano su pilastrini
quadrati: ma è costruizione, evidentemente, seicentesca che non desta
alcun interesse, essendo la sua architettura molto semplice e rozza.
***
Descritta così, sommariamente, la Chiesa di S. Maria
a Marciano: passiamo ad esaminarla nelle singole sue parti.
PORTALE.
Molto caratteristico, in questa costruzione, è
l’arco acuto del portale, in piperno intagliato, ma, presentemente,
ricoperto da un sottile strato di pittura di color giallo. Dico caratteristico,
perché, pur appartenendo alle forme gotiche, si discosta un poco dai tipi comuni,
in modo da potersi considerare come un tipo raro, se non addirittura unico nel
genere.
Giova qui ricordare come gli archi gotici, possono
ridursi a tre tipi fondamentali: il tipo compresso cioè, il lanceolato
ed un ultimo che potremmo chiamar regolare.
In ciascuno di questi tipo, l’arco è sempre la risultante
di due segmenti di cerchio che s’incontrano: cosicché la differenza dall’uno
all’altro tipo, è caratterizzata, unicamente, dalla distanza dei centri delle
due parti di circonferenza che s’incontrano per formare l’arco, dal piano
d’imposta. Quando infatti i centri che determinano i due segmenti di
cerchio, sono esterni all’ogiva, allora essa ha forma lanceolata;
quando invece sono interni, ha forma compressa; quando, finalmente,
coincidono col nascimento dei segmenti di cerchio, producono l’arco che diremmo
perfetto, appunto perché, in esso, si può inscrivere un triangolo
rettangolo.
Ora, ritornando all’arco del portale, è
necessario avvertire che, pur appartenendo al tipo lanceolato, non lo
incarna in tutti i suoi particolari, perché si va restringendo verso la chiave
in modo tale da non obbedire al rigore matematico della costruzione dell’ogiva.
Ed ecco perché, ripeto, si deve considerare come, un tipo nuovo.
E difatti, la Regione dove il gotico si è molto
sviluppato, come ho già avuto occasione di avvertire, è senza dubbio la Calabria,
la cui architettura s’ispira, quasi costantemente, a quella della
Cattedrale di Cosenza. Anzi, possiamo aggiungere che la Calabria è, forse, la
sola Regione del Mezzogiorno d’Italia ove l’architettura abbia assunto un
carattere che può dirsi regionale, perché quelle forme rivivono inalterate
anche attraverso il Rinascimento e si perpetuano perfino nei tempi Barocchi
e ancora sopravvivono. Ebbene, in quella Regione, le forme sono schiacciatissime;
gli archi larghi e depressi, le imposte grevi e basse: tutto un insieme insomma
in cui le forme gotiche renane sembrano riflesse come in uno specchio
concavo.
Una pallida rassomiglianza possiamo trovarla nel
portale della Chiesa di S. Nicola di Girgenti: ma l’arco del nostro è molto più
stretto.
NAVATA.
L’unità di rapporto della navata in questa
Chiesa, è il quadrato,che si ripete due volte in essa e tre volte nel transetto.
Ora devo avvertire che questa tecnica di dividere le
navate delle Chiese, in un determinato numero di quadrati, la troviamo costantemente
adoperata nelle Chiese gotiche d’Italia: ed è una riproduzione fedele delle
Chiese d’oltre Alpe. Anzi, mi permetto di aggiungere che, è talmente rispettato
questo sistema, che lo troviamo riprodotto finanche nelle più piccole Cappelle.
Infatti, originariamente, una Cappella, è sempre
composta di un solo quadrato: quanto poi si sente la necessità di ampliarla, si
costruisce un 2° quadrato, che comunica col 1° per mezzo di un arco ogivale.
PILASTRI.
I pilastri originari della nostra Chiesa, sono
presentemente, nascosti in murature di robustamento, eseguite nei primi anni
del Seicento: ma, dagli altri esempi che ne abbiamo, è facile intuire la
loro forma primitiva.
Facendo infatti il solito confronto tra il gotico
del Nord della Francia e il nostro, troviamo lì la grande ricchezza di
membrature; i grandi pilastri composti di fasci di colonnine di varia forma, di
varia grandezza, ciascuna delle quali, si solleva fino alla volta, ove diventa
membratura, per ricadere poi al lato opposto.
Nelle Chiese a volte, in generale, il
pilastro, anche nelle forme più semplici, ha nella faccia anteriore la
colonnina, che va ad inarcarsi nella volta, dividendo le campate.
Nelle Chiese Meridionali che mancano di volta, ma hanno invece un tetto
a capriate, le colonne sul fronte del pilastro, devono necessariamente
mancare, dato il canone fondamentale dell’architettura gotica, che nessuna
colonna, o membratura, o spigolo, continui fino alla volta, ove, se pure si
trasforma, non cambia però l’ufficio statico che ha fin dal suo nascimento.
Qui dunque, standoci la volta, e tra le due campate,
un arco ogivale che la divide, dobbiamo pensare, se non addirittura
alla colonna nella faccia interna dei pilastri, almeno ad una sporgenza del
pilastro medesimo, che faccia da piedritto all’ogiva divisoria delle campate.
VOLTA.
Se le solenni Cattedrali del Nord della Francia, ci
danno esempi di bellissime volte, collocate ad altezze sorprendenti, e
poggiate su audacissime volte, collocate ad altezze sorprendenti, e
poggiate su audacissime crociere cordonate con chiave di volta, che
talora si allungano e ricadono come stalattiti: in Italia invece l’uso della
volta è meno frequente; anzi, possiamo affermare che, il sistema Latino del tetto
a capriate, resiste attraverso le seduzioni delle ingegnose volte nordiche.
Da noi è sempre il germe della latinità che, in ogni
tempo, insorge e gli elementi importati da terre straniere, sono costantemente
sentiti e riprodotti attraverso i dettami delle forme patrie latine.
Le grandi Chiese dei centri più importanti, come per
esempio, a Napoli, Santa Chiara, S. Lorenzo, S. Domenico Maggiore, il Duomo,
ebbero il tetto a capriate: il quale, del resto, è comune anche alle
grandi e mezzane Chiese delle Calabrie, del ciclo Angioino. Nelle piccole
Chiese invece, dove la costruzione della volta, non presenta gravi
difficoltà, per il ristretto spazio delle campate, gli architetti,
preferirono adattare la volta. Ecco perché, nella nostra Chiesa,
troviamo la volta a crociera, impostata su quattro sostegni, collegati
per mezzo di archi: due archi cioè in aggetto nella larghezza della
navata, e due archi normali, paralleli al muro.
È utile però notare che, in tutte le Chiese, medie o
grandi, in cui si trova il tetto a capriate, i Cori sono
costantemente a volta.
CORO CON CAPPELLINE LATERALI.
Come dicevo, il Coro di S. Maria a Marciano,
è costruito su pianta quadrata. Quantunque questa forma sia molto rara
nelle grandi Chiese gotiche, dove prevale la pianta poligonale, è
comunissima invece in quelle di minore importanza.
La Calabria è piena di esempi di Chiese gotiche a Coro
quadrato, con volte a crociera, cordonate con membrature ricadenti
su quattro colonne angolari, e raramente su mensole. D’importanza non
trascurabile, sono infatti il Coro della Chiesa di S. Antonio in Morano
Calabro; di S. Bernardino in Amantea e di Sant’Agostino in Paola.
Come pure, la medesima struttura di Coro, si
trova nell’interessantissima Chiesa diruta dell’Annunziata di Minturno, Ove,
così le pareti, come la volta, sono ricoperte di affreschi stratificati,
di vari periodi del Trecento e dei primi anni del Quattrocento.
Per ciò che riguarda poi le due Cappelline che
troviamo nella nostra Chiesa, ai lati del Coro, devo avvertire che, non sono
rari, nelle Chiese gotiche, gli esempi in cui ai lati del Coro, si aprano due
cappelline quadrate, imitanti nell’insieme le tre Absidi della Basilica Latina,
che troviamo usata fino a tutto il Ciclo Normanno, nel Mezzogiorno
d’Italia.
Le due Cappelline laterali, talvolta corrispondono
alle navate minori e talvolta, quando la Chiesa è a una navata sola,
come nella nostra, servono di ornamento al transetto.
FINESTRE.
Tanto le due campate della navata,quanto
il transetto, sono muniti di due finestre monofore, di forma
oblunga, delle quali però, danno luce, solo quelle che guardano il mezzogiorno.
Di tutte queste finestre, la caratteristica forma
gotica originaria, è conservata interamente solo nella prima, la più vicina
cioè alla porta d’ingresso; mentre nelle altre, è stata in parte, modificata.
Il Coro, presentemente, riceve luce da
un’apertura semicircolare, che potrebbe considerarsi come un mezzo rosone in
miniatura: le due Cappelline invece, per mezzo di un finestrino
rettangolare, molto allungato, con piccolo arco trilobato. È opportuno
però notare che, in origine, l’apertura del Coro, presentava la medesima
struttura di quella delle Cappelline, come si può facilmente rilevare,
osservandola nella parte esterna. Fu modificata, evidentemente, ai principi del
Seicento, quando cioè venne restaurata la Chiesa, e forse, all’unico
scopo di poter collocare nella parete mediana, al di sopra dell’Altare
Maggiore, un quadro della Vergine, a cui era dedicata la Chiesa medesima.
PAVIMENTO.
Il pavimento attuale, che non conserva, certo,
assolutamente nulla dell’originario Trecentesco, risulta di piccoli
mattoni quadrati di cm 21. È intersecato però, in lungo ed in largo, da
una triplice striscia di mattonelle policrome invetriate: lavoro
probabilmente del Seicento.
Tanto nella parte centrale delle due campate della
nave, quanto in quella del transetto, osservasi una rozza pietra,
che chiude l’apertura di un ipogeo. Solo la prima però, la più vicina
cioè alla porta d’ingresso, reca scolpita la seguente epigrafe: D.O.M. / HIC.
IACENT. TVMVLATA / CORPORA. SORORVM / CONGRIS. IMMACVLATAE / A. D. MDCCXCVIII.
Attualmente i tre ipogei sono divisi l’uno
dall’altro, mediante un muro intermedio: ma la speciale struttura della volta,
fa supporre che, in origine, tutto il sottosuolo della Chiesa, fosse costituito
da un’unica ed ampia galleria.
TORRE CAMPANARIA.
Dalla cappella a sinistra del Coro, si accede
alla Torre Campanaria, la quale è attraversata internamente, da una
graziosa scaletta a chiocciola: opera pregevole del Trecento, che
immette nel vasto Eremo, che sorge sull’area stessa della Chiesa.
Dell’altezza complessiva di poco più di venti metri,
questa torre, è di una struttura molto semplice, giacché risulta, nelle
sue linee generali, di un piano inferiore, quadrato, che si eleva liscio ed
omogeneo, per l’altezza di 15 metri circa; e di un 2° piano, di più meschine
dimensioni, sormontato da una cupoletta circolare, ricoperta esternamente da
minuscole mattonelle invetriate, gialle e verdi alternate, disposte a quinconce.
La rigida monotonia del piano inferiore, è rotta
soltanto da piccolissimi finestrini rettangolari,una specie di feritoie, che
danno lune all’interno: mentre il piano superiore è munito di quattro aperture
monofore di differenti dimensioni, ma tutte ad arco ogivale, più o meno
modificato.
La piccola ed una Campana, collocata nel vano
dell’apertura che guarda il settentrione, presenta all’intorno, scolpita, la
seguente epigrafe:
†SANCTA. MARIA. MARCIANO. A. D.
1624
†D. PHILUPPUS. DE. SIO. EPISCOPUS CALATINUS.
Al disotto poi di questa iscrizione si vede, da un
lato, scolpita la Vergine, recante sul braccio sinistro il Bambino, e
dall’altra lo stemma di Monsignor De Sio.
ELEMENTI FRAMMENTARI.
Non manca d’interesse in questa Chiesa l’elemento
frammentario, benché vi si trovi adoperato in piccola parte.
Noto prima di tutto che, il
sistema della messa in opera degli elementi antichi, è comunissima fin dai
primi tempi del cristianesimo,come ne fanno fede non solo le Basiliche di Roma,
ma ancora di altre città Italiane e straniere, e perdura fino a buona parte del
Trecento.
Un esempio importantissimo ce l’offre il Duomo di
Napoli, in cui sono messe in opera colonne antiche: come pure S. Lorenzo
Maggiore, in cui le due file laterali d’archetti a sesto acuto,sono
impostati su capitelli, a colonne provenienti da edifizi pagani.
Interessantissime adunque, nella nostra Chiesa, sono
due colonne di pietra, che sostengono il grande arco del Coro. Di dimensioni
sono quasi identiche, giacché quella di sinistra misura metri 1,93 compresa la
base; mentre quella di destra, metri 1,93, esclusa però la base, che misura
invece centimetri 19.
La prima, porta incisa nella parte superiore, a
grosse lettere, il numero romano VI. È dunque una colonna miliare.
Il Corcia[7]
ci parla di una colonna miliare col numero VI che osservavasi, un tempo, nel
luogo deve sorgeva l’antica Caiazzo, e indicava la distanza di Caiazzo da
Capua, che era appunto di sei miglia antiche. Scrive egli infatti: “A sei
miglia antiche da Capua all’est di questa città, sorgeva sulla via Appia la
piccola città o castello di tal nome (cioè Caiazzo) di maggior rinomanza
negli scrittori antichi, ma certo, meno importante dell’altra città omonima nel
Sannio”. E in una nota a pié pagina, continua: “La Tabula Peutingeriana
segm. 5.7., Strabone che la nomina due volte (Via Appia V p. 248 e VI 282),
ed una colonnetta milliare col VI che già vedevasi nel sito delle sue
rovine, conferma la testimonianza del citato itinerario”.
Ora una domanda: “È proprio quella che si osserva in
S. Maria a Marciano, la colonnetta menzionata dal Corcia?”.
Io credo di sì, essendo molto esplicita la sua
citazione.
Né vale il dire che il Corcia, nel luogo citato, non
parli di Caiazzo, ma di Galazia, città presso Maddaloni, essendo questa e non
quella posta sulla via Appia: giacché, se Caiazzo non era sulla Via Appia, non
si può mettere in dubbio che nelle sue vicinanze, passasse una diramazione
dell’Appia, quel tratto cioè che da Telese, per Syllas (oggi
Squille) e Caiazzo, menava a Capua. E di questo tratto di via ci parla
pure Mommsen “Corp. Inscr. Lat. Vol. X”.
D’altronde questa colonna, non poteva indicare la
distanza di S. Maria a Marciano dalla vecchia Capua, giacché, come ci
riferisce pure il Mommsen (vol. cit.), detta Chiesa dista dall’attuale S. Maria
Capua Vetere sette miglia napolitane.
È fuori dubbio adunque che la colonna ricordata dal
Corcia corrisponda proprio alla nostra.
***
L’altra colonna, quella cioè di destra, è
importante, non solo per la sua antichità, ma ancora per la lunga epigrafe che
porta scolpita. È registrata questa epigrafe del Mommsen vol. X Corp. Inscr.
Lat. N. 8308 e negli “Atti della Commissione Conservatrice dei Monumenti
in Terra di Lavoro” nel verbale della tornata del 7 dicembre 1881, p. 126.
Il testo secondo la ricostruzione del Faraone, è il
seguente: DOMINO. NOSTRO / FLAVIO. VALERIO / CONSTANTINO. PIO / FELIci.
InVICTO. AUG. / DIVI ConSTANTI / auG. FILIO.
È, evidentemente, una colonna commemorativa.
Da principio, ero proprio convinto che facesse parte
dell’antica Chiesa di S. Maria a Marciano e che, per conseguenza, fosse stati
ivi posta, in onore del grande Costantino, unicamente per il fatto di avere,
egli col suo celebre editto di Milano del 313, ridonata alla Chiesa
Cattolica, la sospirata pace, dopo il lungo e terribile periodo delle
persecuzioni imperiali.
Ma, e la speciale forma della colonna, che poco
differisce dall’altra colonna miliare, e notizie storiche locali, apprese
posteriormente, mi hanno fatto, in parte modificare la primitiva opinione:
cosicché ora, pur ritenendo ferma la prima parte, che si tratti cioè di una colonna
commemorativa, - sono intimamente persuaso che fosse stata posta dai
Caiatini, lungo la così detta strada Consolare, (ma sempre nelle
vicinanze della città), a ricordo di un grande avvenimento.
Quale potrebbe essere questo avvenimento?
***
Secondo ci riferisce il compilatore del “Liber
Pontificalis” e propriamente nella vita di S. Silvestro: Costantino
Imperatore, non si sa con precisione in quale anno, ma certo dopo il 334, anno
in cui, si vuole, che ricevesse il Battesimo, fondò nella città di Capua una
Basilica, che dedicò ai Santi Apostoli, e che da lui prese il nome di
Costantiniana
Si legge infatti in questo importantissimo documento
“…Fecit Beatissimus Costantinus Augustus intra rubem Capuam Basilicam
Apostolorum quam cognominavit Constantinianam”.
Non nego essersi sempre agitata la quistione, circa
la veridicità di tale notizia: ma, pare non si possa mettere in dubbio, data la
grande importanza storica del libro in cui è registrata. Del resto, anche nella
“Cronaca Volturnese”, data alla luce dal Muratori, leggiamo: “In
civitate Capuana Constantinus Augustus, Ecclesiam in honorem Apostolorum
excitavit, quae dicitur Constantiniana”. Ma quell che a me premerebbe,
maggiormente di assodare, e di cui son quasi convinto, è la venuta di
Costantino nella città di Capua.
Il Giannone infatti, ci riferisce che, nel
luglio 326, Costantino venne a Roma, e vi si trattenne per circa cinque anni e
tra le sue braccia vide, alla fine, morire Elena sua madre.
Ora, se si ammette che rimanesse a Roma per un
periodo così lungo, è mai possibile che non sia venuto a visitare la Campania,
e specie Napoli e Capua, città molto care ai Romani?
Per ciò che riguarda Capua, sappiamo che, fin dai
tempi più remoti, formò sempre la delizia e il tranquillo riposo degli uomini
consolari, dei più illustri cittadini soggetti a quella Repubblica e degli
stessi Imperatori. Per potenza poi, per popolazione e per sontuosità di
edifizi, fu considerata, dai più grandi scrittori latini, come Polibio, Lucio
Floro, Livio, Cicerone, come emula di Roma. Cicerone infatti la chiama più
volte: “Roma altera et emula Romae”.
Per queste ragioni adunque, e molto più per l’autorità
delle due testimonianze addotte e di altre ancora che si potrebbero riportare,
di scrittori autorevoli, come Michele Monaco, il Pratilli etc. credo non si
possa mettere in dubbio la venuta di Costantino a Capua.
Ciò posto: quantunque si sia tentato da molti
Storiografi ed Archeologi, di dimostrare che la via Appia non passasse
per l’antica Caiazzo: non si può, certo, disconvenire, come ho già notato
altrove che, una diramazione dell’Appia, sia stata appunto la via che da
Telese, per Caiazzo, menava a Capua, e che, in tempi posteriori, fu chiamata strada
Consolare.
Ora, trovare una colonna dedicata al grande
Costantino, mi fa concepire subito una duplice ipotesi: o che cioè, Costantino
venendo a Capua, abbia preso a percorrere appunto questo tratto che da Telese
passava per Caiazzo; oppure che, dimorando a Capua sia venuto a visitare
Caiazzo. Come Capua infatti, anche l’antica Caiazzo, occupava un posto eminente
nella Storia, sia perché teatro di continue guerre, sia perché, frequentemente
ricordata dai più illustri scrittori latini.
Ammessa dunque come storica la venuta di Costantino
a Capua, tanto l’una che l’altra ipotesi, appare molto probabile.
Solo, un grave ostacolo, per al loro piena
credibilità, potrebbe trovarsi nel fatto che, dopo Augusto, i Caiatini, si
mostrarono sempre ossequienti verso gl’Imperatori Romani, dedicando ad essi
nell’interno della città delle lunghe epigrafi, tuttora, una dedicata
all’imperatore Traiano[8];
un’altra all’imperatore Adriano[9];
altre ancora secondo la testimonianza del De Simone[10]
si leggevano, un tempo, in onore di Licinio Cesare, Diocleziano, Valerio
Massimo etc.
Qual meraviglia adunque, si potrebbe obbiettare, se
se ne trovi pure una in onore del grande Costantino?
Non nego che ciò sia vero: ed aggiungo pure che,
nessuna meraviglia avrebbe prodotta in me la sua esistenza, se, come le altre,
fosse stata scolpita su lastra di pietra o di marmo. Ma quell che mi ha spinto
ad avanzare le due esposte ipotesi, è stato unicamente il fatto, di trovarla
scolpita su di una colonna, non solo, ma su di una colonna quasi identica
all’altra miliare.
Continuando adunque: a meno che non si voglia
ritenere col Faraone che, sia stata posta tale colonna, lungo la strada
Consolare, per ricordare che, proprio per opera di Costantino era stata essa
ricostruita: - bisognerà, certo, fare buon viso alla mia logica opinione.
Che poi, realmente tale colonna, non facesse parte
dell’antica Chiesa, e che, per conseguenza fosse stata adibita nella
ricostruzione di essa, unicamente a sostegno dell’arco del Coro: si potrebbe
desumere anche dal semplice fatto che, è collocata in modo che, buona parte
dell’epigrafe citata, è nascosta nella fabbrica. Cosicché fu potuta leggere per
intero dal De Vivo e dal Faraone, nel 1886, solo abbattendo parte della muratura
in cui è incastonata.
Presentemente l’epigrafe è di nuovo ricoperta.
Certo, se fosse stata rinvenuta tra le rovine
dell’antica Chiesa, non sarebbe stata trattata così male, nella ricostruzione
della nuova.
***
Oltre questi due elementi frammentari, altri ancora
se ne osservano, attualmente, nelle mura esterne dell’edifizio.
Ho già avuto infatti occasione di parlare, a lungo,
dell’interessantissimo avanzo del sepolcro di Cecina Marciano: è inutile quindi
ritornare sull’argomento. Noto ora, così di passaggio, che, un frammento
perfettamente identico al precedente, trovasi murato in un parte esterna del transetto,
e proprio in quella che guarda il mezzogiorno. – Non reca epigrafe alcuna: ma,
non è improbabile che se ne trovi traccia nella parte opposta.
Sarebbe indispensabile adunque rimuoverla dal sito
che occupa, non solo per poterla meglio esaminare, ma anche per evitare che le
intemperie, al cui contatto, trovasi continuamente, esposta, non compiano
addirittura la loro opera deleteria.
E questo rimedio bisognerebbe adottare pure per
quella di Cecina Marciano già abbastanza danneggiata.
Altri due frammenti in pietra, che dovrebbero
evidentemente, far parte di un’antichissima ed unica costruzione, si osservano:
uno nel medesimo muro esterno del transetto, in prossimità del frammento
citato; e l’altro in un muro di cinta del vicino cimitero.
***
BIFORE.
In tutto il vasto fabbricato addossato alla Chiesa,
e che è stato sempre adibito per abitazione dell’eremita, addetto a custodia
del Sacro Tempio – all’infuori di due graziose bifore, nulla vi è
d’importante e che meriti perciò un cenno speciale: risultando l’insieme di una
costruzione irregolare, messa su, senza ordine e senza criterio.
Mi limito dunque a far rilevare solo che, molto
probabilmente, all’epoca della ricostruzione della Chiesa, rimonti solo quella
parte che sorge sull’area stessa occupata dal transetto, dal coro
e dalle cappelline laterali al coro stesso; e che tutto il resto debba
ascriversi ad un’epoca molto posteriore. Quest’ultimo dato, si può facilmente,
rilevare anche dalla semplice disamina dei materiali adoperati in tutto il
complesso della costruzione. Per la parte più antica infatti, come del resto
per tutta la Chiesa, non esclusa la torre campanaria, è adoperato il piperno;
per la parte invece che io ritengo più recente, la pietra tufacea ordinaria.
Delle due bifore, che fanno parte,
naturalmente, della costruzione antica, la più importante è, senza dubbio,
quella che guarda il settentrione.
È costituita esternamente, da un arco ogivale,
piuttosto depresso che misura, dalla base alla chiave, metri tre di altezza.
Sono inscritti in esso due archetti trilobati che poggiano su di un
piccolo capitello a piramide tronca, situato sul sommoscapo di
una graziosa colonnina di marmo, della lunghezza di metri 1,13. Il tutto
sormontato da un timpano a traforo. Quantunque di forme un po’ tozze, è
senza dubbio, un tipo di bifora molto interessante, anche perché, per
quanti confronti avessi potuti fare, non son riuscito a trovare altri
esemplari, perfettamente identici.
Non meno interessante è l’altra bifora,
situata dalla parte di mezzogiorno, quantunque di struttura più semplice e di
proporzioni più meschine.
Nelle sue linee generali, è condotta sul tipo della
precedente, manca però completamente di timpano. La colonnina mediana di
un metro di altezza, è sormontata dal solito capitello a piramide tronca,
al di sopra del quale è collocato una specie di pulvino che sostiene una
trabeazione risultante di due pezzi di piperno di forma
rettangolare.
***
Ed ora, prima di passare ad occuparmi della parte
decorativa della Chiesa medesima, stimo opportuno rivolgermi una domanda: “È
sorta, realmente, la Chiesa, quale ora si osserva, tutta d’un getto, oppure è
stata ampliata in epoche differenti?”
Certo, se si volesse seguire ciecamente la
tradizione, bisognerebbe dividerla in tre parti, corrispondente ciascuna a tre
epoche distinte e molto lontane l’una dall’altra.
La parte più antica sarebbe costituita dall’attuale Coro;
il Transetto con le due Cappelline laterali al Coro, sarebbero
state aggiunte dopo il 1330; la parte più recente abbraccerebbe tutta la Navata
compreso il Pronao.
Per l’antichità del Coro sembra che inclini
anche il Mommsen: parlando egli infatti[11]
delle due colonne di pietra che sostengono l’arco del Coro stesso, e che
egli riporta con i nn. 8307 – 8308, si esprime così: “N. 8307 columna ex
lapide tiburtino… sustinens una cum 8308 arcum aediculae primarie Ecclesjae S.
Martino a Marciano…”. Qui però, evidentemente, il Mommsen, più che la
propria convinzione, esprime l’opinione del Faraone, il quale, pare che, anche
ora, la pensi così: non saprei davvero stabilire in base a quali principi. Il
Mommsen, è vero, avrebbe potuto correggere l’errore, avendo in seguito visitata
la Chiesa, (come ho già avuto occasione di notare); ma forse non lo credette
opportuno, perché a lui, più che la forma architettonica della Chiesa,
interessava constatare l’esistenza e l’antichità delle due colonne.
L’ipotesi poi circa la 2° parte aggiunta dopo il
1330, non è altro che una legittima conseguenza della tradizione, da me
riferita in principio, e cioè che il pio capitano “ampliò l’antica Chiesa
decorandola con affreschi”.
Noto però subito, a tal proposito, che il vocabolo “ampliare”
dev’essere qui inteso in un senso molto più largo: non si deve cioè ritenere
che, alla parte primitiva rimasta intatta, siano state fatte delle aggiunte
laterali, ma piuttosto che, sulle rovine dell’antica Chiesa, sia sorta la nuova,
di proporzioni molto più vaste.
E finalmente, la 3° ipotesi, che cioè tutta la Navata
col Pronao, sia stata aggiunta in epoca posteriore al 1334, e
proprio ai principi del Seicento: fu vagheggiata la prima volta dal citato
Parroco De Vivo, nella sua “Breve relazione su Santa Maria a Marciano”,
che si conserva manoscritta, nell’archivio della Curia Vescovile di Caiazzo.
Le ragioni che indussero il Sig. De Vivo, a metter
fuori tale inconsiderata ipotesi, dovettero essere evidentemente, due: il
trovare cioè sulla porta d’ingresso lo stemma marmoreo di Mons.
Acquaviva; e nell’interno della Chiesa, trovar sostituito, solo nella Navata,
all’arco acuto, quello a tutto sesto, che è proprio del
periodo del Rinascmento.
Che cosa ricordi lo stemma dell’Acquaviva, ho avuto
già occasione di notarlo, nella parte storica: non credo quindi opportuno, aggiungere
altro in proposito.
Per ciò che riguarda poi il 2° fatto: è purtroppo
vero che tra le campate di cui risulta divisa l’area della navata,
archi a tutto sesto, invece di quelli ad ogiva, poggiano su ampi
pilastri di robustamento. Non è però questa, ragione sufficiente perché tutta
la navata possa ascriversi ad epoca posteriore al Trecento.
Basta infatti esaminare con attenzione e criterio,
la costruzione della navata, per scorgere subito al di sopra dell’arco
tondo, che chiameremo di robustamento, l’arco acuto primitivo. Se
poi, d’altra parte, si tien conto della forma speciale dei pilastri,
dalla base molto ampia e addossati quasi alle pareti: si dovrà senz’altro conchiudere
che, non la navata fu costruita ai principi del Seicento, ma bensì
queste opere di robustamento.
La navata esisteva nel Seicento, ma la sua parte
statica, doveva essere in serio pericolo: come si rileva facilmente, dalla
esatta interpretazione delle parole di Monsignor Filomarino, ricordate innanzi.
È da presumersi dunque che, per evitare una possibile catastrofe, si pensasse a
rinforzarla – internamente – con l’aggiunzione di archi a tutto sesto a
quelli ad ogiva, originari; ed esternamente, con la costruzione del Pronao,
dalla parte di occidente; di un ampio zoccolo in muratura, dal lato di
mezzogiorno, e dalla parte di settentrione poi, mediante l’ampliamento
dell’antico Eremo.
Se dunque la Chiesa attuale, risulta nel suo
complesso di un’unica forma architettonica;a che scopo spezzettarla in tante
parti, di epoche differenti?
(continua)
[1] Enlart, Origines Françaises de
l’Architecture Gothuque en Italie, (Bibliothèque des Ecoles françaises
d’Athenes et de Rome) Paris, Thorin, 1894.
[2] Enlart, op. cit.
[3] V. Filangieri Prof. Conte Ant., La Chiesa di S. Lorenzo Maggiore in Napoli, pag. 5.
[4] Filangieri, op. cit., p. 5.
[5] Enlart, op. cit.
[6] V. Filangieri, op. cit., p. 1.
[7] Storia delle due Sicilie, vol. 2°, p. 84.
[8] Il testo è il seguente.
Imp Caes. Divi – Nerve. F. Traiano – Aug. Calatini. P. S. P. P. O. E
[9]
Fu scoperta dal Melchiori nel luogo ove sorgeva la fortezza della città. Il
testo secondo è riportato dal Melchiori stesso e dal De Simone “De antiquo
Statu Civitatis Calatiae” p. 20, era: Imp. Caesar. Divi – Traiani.
Partici. Fil. – Divi. Nerve Nep. – Traianus. Adrianus. - … Rib. Post. V. Cos
III Pwulterinis – Moribus. Exornavit. Pecunia. Sua.
[10] De Simone, op. cit., 20-21.
[11] Mommsen, Corpus Inscriptionum Latinarum, vol. X.