Archivi Storico               Home page

 

 

      La Chiesa di S. Maria a Marciano in Piana di Caiazzo (III)

 

Sua importanza archeologica, storica ed artistica

 

(continuazione, v. n. precedente)

Parte III

 

Notizie iconografiche

 

L’Architettura gotica, sorta probabilmente nella Francia del Nord, fu importata in Italia, fin dal principio del secolo XII, non solo per opera di Architetti Tedeschi e Francesi, ma anche degli ordini Religiosi.

L’Italia, però, è buono farlo notare fin da principio, era troppo attaccata alle tradizioni dell’antichità, e per conseguenza non poteva offrire un terreno adatto per il pieno sviluppo di quest’arte nuova, come lo aveva fatto invece la Francia e la Germania. Ecco perché, osserva l’Enlart,[1] non troviamo nei monumenti gotici Italiani, anche più importanti, come il Duomo di Milano, quelle raffinatezze che realizzarono gli Architetti Francesi, in fatto di equilibrio, di leggerezza, di ornamentazione.

In generale, possiamo affermare che, il goticismo, non ha incarnata la vera coscienza nazionale. Se prendiamo infatti ad esaminare alcuni dei monumenti più importanti, come per esempio le Chiese di Santa Croce di Firenze, di Santa Maria Ara – Coeli a Roma: troviamo sempre un’architettura i cui caratteri gotici, sono espressi con tale timidità da sembrare che, con la singolare sostituzione dell’arco tondo all’arco acuto, la Chiesa potesse prendere aspetto di opera Romanica o del Rinascimento.

Però come in Francia, così ancora in Italia, si vennero man mano, formando varie scuole, le quali, pur conservando più o meno, immutati i caratteri generali che contradistinguono l’architettura gotica dalla romanica, si differenziano per delle particolarità create, unicamente dal gusto e dall’indole degli architetti della regione, in mezzo a cui fiorisce.

 

***

 

Tra le scuole gotiche Italiane, ve n’è una che più si accosta al gotico Francesee specie a quello fiorito in Provenza: è questa la Scuola Napoletana, comunemente conosciuta sotto il nome di Scuola Angioina, appunto perché il suo fondatore si può considerare Carlo I d’Angiò.

Divenuto infatti re delle Due Sicilie nel 1266, dopo cioè la celebre battaglia di Benevento, nella quale il povero Manfredi finiva, così tragicamente la sua vita – Carlo, fa ben presto gettare le fondamenta di parecchi edifizi, per la maggior parte religiosi, riuscendo così a stabilire nel suo regno, per quanto modificato, quello stile gotico che, non erano riusciti ad introdurvi i Cisterciensi, i Canonici di Barletta e gli architetti di Federico II[2].

Tra le Chiese più importanti di questo primo periodo, basta ricordare l’Abazia della Vittoria presso il lago Fucino; e a Napoli S. Lorenzo Maggiore, la cui costruzione fu incominciata, probabilmente, proprio nel 1266; e poi S. Eligio (1270); il Duomo (1279); S. Domenico Maggiore (1285).

Non rechi meraviglia però se gli edifizi fatti costruire da Carlo d’Angiò e dai suoi successori, incarnino meglio i caratteri del gotico Francese. È ormai noto, come non solo Carlo I ma anche Carlo II, si circondassero di una corte esclusivamente francese, ed a nobili francesi (specie Provenzali), distribuissero tutte le signorie e tutte le cariche pubbliche dello stato.

I Registri Angioini, conservati nell’Archivio di Stato di Napoli, non solo ci ricordano i nomi dei signorotti che formavano la corte di Carlo I e Carlo II, ma ancora di molti architetti Francesi che vivevano, si può dire, a spese dello stato[3].

Tra gli altri, vanno ricordati quelli dei maestri sorveglianti o sopraintendenti ai lavori di costruzione come”Roulin de Fresnay, Adam de Saint Germain, Guillaume de Cosangres, Iehan de Verdy, Guillot de Braye e Pierre d’Angicourt” che divenne poi il principale architetto del re e sopraintendente ai lavori della corte[4]. Anzi, a proposito di quest’ultimo, giova notare che, se si tien conto della speciale benevolenza di cui era circondato nella corte, tanto da esser chiamato dal Carlo II “in aedificiarum Ecclesiarum et etiam aliarum expertum operibus”, nessun dubbio vi può essere che proprio costui sia l’autore delle più importanti costruzioni napolitane: quantunque la tradizione l’attribuisca ad un certo Masuccio, personaggio leggendario[5].

Ora, ripeto, era più che naturale che la scuola gotica Napolitana, sorta sotto gli auspici di sovrani francesi, incarnasse più di qualunque altra scuola regionale italiana, i caratteri del gotico fiorito sul suolo di Francia.

***

 

Non solamente nel Napolitano, però, esercitò la sua grande influenza la scuola Angioina, ma in quasi tutta l’Italia Meridionale.

Ho già avuto occasione di ricordare la celebre Abazia della Vittoria, fatta costruire da Carlo I presso il lago Fucino, nell’anno stesso in cui veniva assunto al trono, cioè nel 1266. Aggiungo ora che, Chiese Angioine, sorsero a Lucera, a Barletta, a Monte Sant’Angelo, a Messina e finanche negli Abruzzi. La Chiesa di Scurcola Marsicana infatti, conserva tuttora un piccolo portale della fine del secolo XIV, con caratteri eminentemente francesi.

Anche la Calabria adottò il sistema Angioino: anzi si può dire che, la Calabria sia l’unica regione Meridionale, dove persistettero più lungamente le forme Angioine.

 

***

 

In quanto alla pianta delle Chiese, gli Angioini adottarono l’antico sistema meridionale della pianta cioè ad una navata con transetto rettangolare. Su questo tipo infatti son costruite a Napoli, le Chiese di S. Lorenzo Maggiore, Sant’Eligio, Santa Chiara.

Anche la pianta a tre navate è frequentissima: però tanto nel primo che nel secondo sistema, lo stile è piuttosto semplice ed uniforme. Cosicché, per formarsi un concetto adeguato del gotico Angioino, non è assolutamente indispensabile, esaminare la maggior parte dei monumenti da essi eretti, ma basta studiarne solo qualcuno. Finanche lo stile dei monumenti civili e militari, come Castel Nuovo di Napoli e quello di Castrogiovanni di Sicilia, è presso a poco identico a quello delle Chiese.

Il Coro è ordinariamente pentagono: non mancano però quelli di forma quadrata, come per esempio, è il Coro di S. Michele a Monte Sant’Angelo.

Le Cappelle laterali al Coro, son quasi sempre due e di forma rettangolare. Il Transetto, si trova costantemente, e in qualche Chiesa, come S. Lorenzo Maggiore di Napoli, anche il Deambulatorio. I pilastri che sostengono gli archi,su cui è impostata la volta, son lisci, specie nelle Chiese del primo periodo. Le finestre sono alte, strette, diritte: la luce è divisa, ordinariamente, da una o più colonne,su cui poggiano piccoli archi trilobati,sormontati da timpani e traforo.

Le mura delle Chiese, si elevano bensì alte, ma non raggiungono gli slanci meravigliosi di quell’architettura, “che sembre in patria sollevarsi ardita verso il cielo, quasi sottraendosi al rigore delle leggi della gravitazione”[6].

 

***

 

Premessi questi pochi cenni, che ho creduti indispensabili, intorno alla singolare architettura della scuola gotica Angioina: mi permetto subito notare che, sul medesimo tipo Angioino, è condotta la nostra Santa Maria a Marciano.

Né rechi ciò meraviglia, quando si consideri che, fu essa costruita, secondo la tradizione, proprio da un capitano Francese, appartenente, forse, alle milizie di Roberto d’Angiò, re di Napoli, e, nel periodo medesimo in cui la scuola Angioina raggiungeva il suo massimo splendore. È naturale però che, date le modeste condizioni finanziarie del pio fondatore, non poteva, la nostra Chiesa, gareggiare, per vastità e splendore di ornamenti, con le Chiese consorelle che venivano erette qua e là, quasi contemporaneamente, ed a spese della stessa casa Angioina, tanto nell’interno della città di Napoli, quanto negli altri paesi del Reame.

Ed ecco perché, dobbiamo contentarci di un tipo, il più semplice, tra i tipi gotici Angioini.

Risulta infatti, nelle sue linee generali, di un’unica navata con transetto, e di un Coro quadrato con due Cappelline laterali. Tanto le volte che compongono le due campate della navata, quanto quelle del transetto, del Coro e delle Cappelline, sono a crociera ogivale con costoloni molto sporgenti.

È preceduto però, l’edifizio, da un Pronao, piuttosto ampio, di forma leggermente rettangolare, con volta pure a crociera, impostata su quattro archi a tutto sesto, che poggiano su pilastrini quadrati: ma è costruizione, evidentemente, seicentesca che non desta alcun interesse, essendo la sua architettura molto semplice e rozza.

 

***

 

Descritta così, sommariamente, la Chiesa di S. Maria a Marciano: passiamo ad esaminarla nelle singole sue parti.

 

PORTALE.

Molto caratteristico, in questa costruzione, è l’arco acuto del portale, in piperno intagliato, ma, presentemente, ricoperto da un sottile strato di pittura di color giallo. Dico caratteristico, perché, pur appartenendo alle forme gotiche, si discosta un poco dai tipi comuni, in modo da potersi considerare come un tipo raro, se non addirittura unico nel genere.

Giova qui ricordare come gli archi gotici, possono ridursi a tre tipi fondamentali: il tipo compresso cioè, il lanceolato ed un ultimo che potremmo chiamar regolare.

In ciascuno di questi tipo, l’arco è sempre la risultante di due segmenti di cerchio che s’incontrano: cosicché la differenza dall’uno all’altro tipo, è caratterizzata, unicamente, dalla distanza dei centri delle due parti di circonferenza che s’incontrano per formare l’arco, dal piano d’imposta. Quando infatti i centri che determinano i due segmenti di cerchio, sono esterni all’ogiva, allora essa ha forma lanceolata; quando invece sono interni, ha forma compressa; quando, finalmente, coincidono col nascimento dei segmenti di cerchio, producono l’arco che diremmo perfetto, appunto perché, in esso, si può inscrivere un triangolo rettangolo.

Ora, ritornando all’arco del portale, è necessario avvertire che, pur appartenendo al tipo lanceolato, non lo incarna in tutti i suoi particolari, perché si va restringendo verso la chiave in modo tale da non obbedire al rigore matematico della costruzione dell’ogiva. Ed ecco perché, ripeto, si deve considerare come, un tipo nuovo.

E difatti, la Regione dove il gotico si è molto sviluppato, come ho già avuto occasione di avvertire, è senza dubbio la Calabria, la cui architettura s’ispira, quasi costantemente, a quella della Cattedrale di Cosenza. Anzi, possiamo aggiungere che la Calabria è, forse, la sola Regione del Mezzogiorno d’Italia ove l’architettura abbia assunto un carattere che può dirsi regionale, perché quelle forme rivivono inalterate anche attraverso il Rinascimento e si perpetuano perfino nei tempi Barocchi e ancora sopravvivono. Ebbene, in quella Regione, le forme sono schiacciatissime; gli archi larghi e depressi, le imposte grevi e basse: tutto un insieme insomma in cui le forme gotiche renane sembrano riflesse come in uno specchio concavo.

Una pallida rassomiglianza possiamo trovarla nel portale della Chiesa di S. Nicola di Girgenti: ma l’arco del nostro è molto più stretto.

 

NAVATA.

L’unità di rapporto della navata in questa Chiesa, è il quadrato,che si ripete due volte in essa e tre volte nel transetto.

Ora devo avvertire che questa tecnica di dividere le navate delle Chiese, in un determinato numero di quadrati, la troviamo costantemente adoperata nelle Chiese gotiche d’Italia: ed è una riproduzione fedele delle Chiese d’oltre Alpe. Anzi, mi permetto di aggiungere che, è talmente rispettato questo sistema, che lo troviamo riprodotto finanche nelle più piccole Cappelle.

Infatti, originariamente, una Cappella, è sempre composta di un solo quadrato: quanto poi si sente la necessità di ampliarla, si costruisce un 2° quadrato, che comunica col 1° per mezzo di un arco ogivale.

 

PILASTRI.

I pilastri originari della nostra Chiesa, sono presentemente, nascosti in murature di robustamento, eseguite nei primi anni del Seicento: ma, dagli altri esempi che ne abbiamo, è facile intuire la loro forma primitiva.

Facendo infatti il solito confronto tra il gotico del Nord della Francia e il nostro, troviamo lì la grande ricchezza di membrature; i grandi pilastri composti di fasci di colonnine di varia forma, di varia grandezza, ciascuna delle quali, si solleva fino alla volta, ove diventa membratura, per ricadere poi al lato opposto.

Nelle Chiese a volte, in generale, il pilastro, anche nelle forme più semplici, ha nella faccia anteriore la colonnina, che va ad inarcarsi nella volta, dividendo le campate. Nelle Chiese Meridionali che mancano di volta, ma hanno invece un tetto a capriate, le colonne sul fronte del pilastro, devono necessariamente mancare, dato il canone fondamentale dell’architettura gotica, che nessuna colonna, o membratura, o spigolo, continui fino alla volta, ove, se pure si trasforma, non cambia però l’ufficio statico che ha fin dal suo nascimento.

Qui dunque, standoci la volta, e tra le due campate, un arco ogivale che la divide, dobbiamo pensare, se non addirittura alla colonna nella faccia interna dei pilastri, almeno ad una sporgenza del pilastro medesimo, che faccia da piedritto all’ogiva divisoria delle campate.

 

VOLTA.

Se le solenni Cattedrali del Nord della Francia, ci danno esempi di bellissime volte, collocate ad altezze sorprendenti, e poggiate su audacissime volte, collocate ad altezze sorprendenti, e poggiate su audacissime crociere cordonate con chiave di volta, che talora si allungano e ricadono come stalattiti: in Italia invece l’uso della volta è meno frequente; anzi, possiamo affermare che, il sistema Latino del tetto a capriate, resiste attraverso le seduzioni delle ingegnose volte nordiche.

Da noi è sempre il germe della latinità che, in ogni tempo, insorge e gli elementi importati da terre straniere, sono costantemente sentiti e riprodotti attraverso i dettami delle forme patrie latine.

Le grandi Chiese dei centri più importanti, come per esempio, a Napoli, Santa Chiara, S. Lorenzo, S. Domenico Maggiore, il Duomo, ebbero il tetto a capriate: il quale, del resto, è comune anche alle grandi e mezzane Chiese delle Calabrie, del ciclo Angioino. Nelle piccole Chiese invece, dove la costruzione della volta, non presenta gravi difficoltà, per il ristretto spazio delle campate, gli architetti, preferirono adattare la volta. Ecco perché, nella nostra Chiesa, troviamo la volta a crociera, impostata su quattro sostegni, collegati per mezzo di archi: due archi cioè in aggetto nella larghezza della navata, e due archi normali, paralleli al muro.

È utile però notare che, in tutte le Chiese, medie o grandi, in cui si trova il tetto a capriate, i Cori sono costantemente a volta.

 

 

CORO CON CAPPELLINE LATERALI.

Come dicevo, il Coro di S. Maria a Marciano, è costruito su pianta quadrata. Quantunque questa forma sia molto rara nelle grandi Chiese gotiche, dove prevale la pianta poligonale, è comunissima invece in quelle di minore importanza.

La Calabria è piena di esempi di Chiese gotiche a Coro quadrato, con volte a crociera, cordonate con membrature ricadenti su quattro colonne angolari, e raramente su mensole. D’importanza non trascurabile, sono infatti il Coro della Chiesa di S. Antonio in Morano Calabro; di S. Bernardino in Amantea e di Sant’Agostino in Paola.

Come pure, la medesima struttura di Coro, si trova nell’interessantissima Chiesa diruta dell’Annunziata di Minturno, Ove, così le pareti, come la volta, sono ricoperte di affreschi stratificati, di vari periodi del Trecento e dei primi anni del Quattrocento.

Per ciò che riguarda poi le due Cappelline che troviamo nella nostra Chiesa, ai lati del Coro, devo avvertire che, non sono rari, nelle Chiese gotiche, gli esempi in cui ai lati del Coro, si aprano due cappelline quadrate, imitanti nell’insieme le tre Absidi della Basilica Latina, che troviamo usata fino a tutto il Ciclo Normanno, nel Mezzogiorno d’Italia.

Le due Cappelline laterali, talvolta corrispondono alle navate minori e talvolta, quando la Chiesa è a una navata sola, come nella nostra, servono di ornamento al transetto.

 

FINESTRE.

Tanto le due campate della navata,quanto il transetto, sono muniti di due finestre monofore, di forma oblunga, delle quali però, danno luce, solo quelle che guardano il mezzogiorno.

Di tutte queste finestre, la caratteristica forma gotica originaria, è conservata interamente solo nella prima, la più vicina cioè alla porta d’ingresso; mentre nelle altre, è stata in parte, modificata.

Il Coro, presentemente, riceve luce da un’apertura semicircolare, che potrebbe considerarsi come un mezzo rosone in miniatura: le due Cappelline invece, per mezzo di un finestrino rettangolare, molto allungato, con piccolo arco trilobato. È opportuno però notare che, in origine, l’apertura del Coro, presentava la medesima struttura di quella delle Cappelline, come si può facilmente rilevare, osservandola nella parte esterna. Fu modificata, evidentemente, ai principi del Seicento, quando cioè venne restaurata la Chiesa, e forse, all’unico scopo di poter collocare nella parete mediana, al di sopra dell’Altare Maggiore, un quadro della Vergine, a cui era dedicata la Chiesa medesima.

 

PAVIMENTO.

Il pavimento attuale, che non conserva, certo, assolutamente nulla dell’originario Trecentesco, risulta di piccoli mattoni quadrati di cm 21. È intersecato però, in lungo ed in largo, da una triplice striscia di mattonelle policrome invetriate: lavoro probabilmente del Seicento.

Tanto nella parte centrale delle due campate della nave, quanto in quella del transetto, osservasi una rozza pietra, che chiude l’apertura di un ipogeo. Solo la prima però, la più vicina cioè alla porta d’ingresso, reca scolpita la seguente epigrafe: D.O.M. / HIC. IACENT. TVMVLATA / CORPORA. SORORVM / CONGRIS. IMMACVLATAE / A. D. MDCCXCVIII.

Attualmente i tre ipogei sono divisi l’uno dall’altro, mediante un muro intermedio: ma la speciale struttura della volta, fa supporre che, in origine, tutto il sottosuolo della Chiesa, fosse costituito da un’unica ed ampia galleria.

 

TORRE CAMPANARIA.

Dalla cappella a sinistra del Coro, si accede alla Torre Campanaria, la quale è attraversata internamente, da una graziosa scaletta a chiocciola: opera pregevole del Trecento, che immette nel vasto Eremo, che sorge sull’area stessa della Chiesa.

Dell’altezza complessiva di poco più di venti metri, questa torre, è di una struttura molto semplice, giacché risulta, nelle sue linee generali, di un piano inferiore, quadrato, che si eleva liscio ed omogeneo, per l’altezza di 15 metri circa; e di un 2° piano, di più meschine dimensioni, sormontato da una cupoletta circolare, ricoperta esternamente da minuscole mattonelle invetriate, gialle e verdi alternate, disposte a quinconce.

La rigida monotonia del piano inferiore, è rotta soltanto da piccolissimi finestrini rettangolari,una specie di feritoie, che danno lune all’interno: mentre il piano superiore è munito di quattro aperture monofore di differenti dimensioni, ma tutte ad arco ogivale, più o meno modificato.

La piccola ed una Campana, collocata nel vano dell’apertura che guarda il settentrione, presenta all’intorno, scolpita, la seguente epigrafe:

†SANCTA. MARIA. MARCIANO. A. D. 1624

†D. PHILUPPUS. DE. SIO. EPISCOPUS CALATINUS.

Al disotto poi di questa iscrizione si vede, da un lato, scolpita la Vergine, recante sul braccio sinistro il Bambino, e dall’altra lo stemma di Monsignor De Sio.

 

ELEMENTI FRAMMENTARI.

Non manca d’interesse in questa Chiesa l’elemento frammentario, benché vi si trovi adoperato in piccola parte.

Noto prima di tutto che, il sistema della messa in opera degli elementi antichi, è comunissima fin dai primi tempi del cristianesimo,come ne fanno fede non solo le Basiliche di Roma, ma ancora di altre città Italiane e straniere, e perdura fino a buona parte del Trecento.

Un esempio importantissimo ce l’offre il Duomo di Napoli, in cui sono messe in opera colonne antiche: come pure S. Lorenzo Maggiore, in cui le due file laterali d’archetti a sesto acuto,sono impostati su capitelli, a colonne provenienti da edifizi pagani.

Interessantissime adunque, nella nostra Chiesa, sono due colonne di pietra, che sostengono il grande arco del Coro. Di dimensioni sono quasi identiche, giacché quella di sinistra misura metri 1,93 compresa la base; mentre quella di destra, metri 1,93, esclusa però la base, che misura invece centimetri 19.

La prima, porta incisa nella parte superiore, a grosse lettere, il numero romano VI. È dunque una colonna miliare.

Il Corcia[7] ci parla di una colonna miliare col numero VI che osservavasi, un tempo, nel luogo deve sorgeva l’antica Caiazzo, e indicava la distanza di Caiazzo da Capua, che era appunto di sei miglia antiche. Scrive egli infatti: “A sei miglia antiche da Capua all’est di questa città, sorgeva sulla via Appia la piccola città o castello di tal nome (cioè Caiazzo) di maggior rinomanza negli scrittori antichi, ma certo, meno importante dell’altra città omonima nel Sannio”. E in una nota a pié pagina, continua: “La Tabula Peutingeriana segm. 5.7., Strabone che la nomina due volte (Via Appia V p. 248 e VI 282), ed una colonnetta milliare col VI che già vedevasi nel sito delle sue rovine, conferma la testimonianza del citato itinerario”.

Ora una domanda: “È proprio quella che si osserva in S. Maria a Marciano, la colonnetta menzionata dal Corcia?”.

Io credo di sì, essendo molto esplicita la sua citazione.

Né vale il dire che il Corcia, nel luogo citato, non parli di Caiazzo, ma di Galazia, città presso Maddaloni, essendo questa e non quella posta sulla via Appia: giacché, se Caiazzo non era sulla Via Appia, non si può mettere in dubbio che nelle sue vicinanze, passasse una diramazione dell’Appia, quel tratto cioè che da Telese, per Syllas (oggi Squille) e Caiazzo, menava a Capua. E di questo tratto di via ci parla pure Mommsen “Corp. Inscr. Lat. Vol. X”.

D’altronde questa colonna, non poteva indicare la distanza di S. Maria a Marciano dalla vecchia Capua, giacché, come ci riferisce pure il Mommsen (vol. cit.), detta Chiesa dista dall’attuale S. Maria Capua Vetere sette miglia napolitane.

È fuori dubbio adunque che la colonna ricordata dal Corcia corrisponda proprio alla nostra.

 

***

 

L’altra colonna, quella cioè di destra, è importante, non solo per la sua antichità, ma ancora per la lunga epigrafe che porta scolpita. È registrata questa epigrafe del Mommsen vol. X Corp. Inscr. Lat. N. 8308 e negli “Atti della Commissione Conservatrice dei Monumenti in Terra di Lavoro” nel verbale della tornata del 7 dicembre 1881, p. 126.

Il testo secondo la ricostruzione del Faraone, è il seguente: DOMINO. NOSTRO / FLAVIO. VALERIO / CONSTANTINO. PIO / FELIci. InVICTO. AUG. / DIVI ConSTANTI / auG. FILIO.

È, evidentemente, una colonna commemorativa.

Da principio, ero proprio convinto che facesse parte dell’antica Chiesa di S. Maria a Marciano e che, per conseguenza, fosse stati ivi posta, in onore del grande Costantino, unicamente per il fatto di avere, egli col suo celebre editto di Milano del 313, ridonata alla Chiesa Cattolica, la sospirata pace, dopo il lungo e terribile periodo delle persecuzioni imperiali.

Ma, e la speciale forma della colonna, che poco differisce dall’altra colonna miliare, e notizie storiche locali, apprese posteriormente, mi hanno fatto, in parte modificare la primitiva opinione: cosicché ora, pur ritenendo ferma la prima parte, che si tratti cioè di una colonna commemorativa, - sono intimamente persuaso che fosse stata posta dai Caiatini, lungo la così detta strada Consolare, (ma sempre nelle vicinanze della città), a ricordo di un grande avvenimento.

Quale potrebbe essere questo avvenimento?

 

***

 

Secondo ci riferisce il compilatore del “Liber Pontificalis” e propriamente nella vita di S. Silvestro: Costantino Imperatore, non si sa con precisione in quale anno, ma certo dopo il 334, anno in cui, si vuole, che ricevesse il Battesimo, fondò nella città di Capua una Basilica, che dedicò ai Santi Apostoli, e che da lui prese il nome di Costantiniana

Si legge infatti in questo importantissimo documento “…Fecit Beatissimus Costantinus Augustus intra rubem Capuam Basilicam Apostolorum quam cognominavit Constantinianam”.

Non nego essersi sempre agitata la quistione, circa la veridicità di tale notizia: ma, pare non si possa mettere in dubbio, data la grande importanza storica del libro in cui è registrata. Del resto, anche nella “Cronaca Volturnese”, data alla luce dal Muratori, leggiamo: “In civitate Capuana Constantinus Augustus, Ecclesiam in honorem Apostolorum excitavit, quae dicitur Constantiniana”. Ma quell che a me premerebbe, maggiormente di assodare, e di cui son quasi convinto, è la venuta di Costantino nella città di Capua.

Il Giannone infatti, ci riferisce che, nel luglio 326, Costantino venne a Roma, e vi si trattenne per circa cinque anni e tra le sue braccia vide, alla fine, morire Elena sua madre.

Ora, se si ammette che rimanesse a Roma per un periodo così lungo, è mai possibile che non sia venuto a visitare la Campania, e specie Napoli e Capua, città molto care ai Romani?

Per ciò che riguarda Capua, sappiamo che, fin dai tempi più remoti, formò sempre la delizia e il tranquillo riposo degli uomini consolari, dei più illustri cittadini soggetti a quella Repubblica e degli stessi Imperatori. Per potenza poi, per popolazione e per sontuosità di edifizi, fu considerata, dai più grandi scrittori latini, come Polibio, Lucio Floro, Livio, Cicerone, come emula di Roma. Cicerone infatti la chiama più volte: “Roma altera et emula Romae”.

Per queste ragioni adunque, e molto più per l’autorità delle due testimonianze addotte e di altre ancora che si potrebbero riportare, di scrittori autorevoli, come Michele Monaco, il Pratilli etc. credo non si possa mettere in dubbio la venuta di Costantino a Capua.

Ciò posto: quantunque si sia tentato da molti Storiografi ed Archeologi, di dimostrare che la via Appia non passasse per l’antica Caiazzo: non si può, certo, disconvenire, come ho già notato altrove che, una diramazione dell’Appia, sia stata appunto la via che da Telese, per Caiazzo, menava a Capua, e che, in tempi posteriori, fu chiamata strada Consolare.

Ora, trovare una colonna dedicata al grande Costantino, mi fa concepire subito una duplice ipotesi: o che cioè, Costantino venendo a Capua, abbia preso a percorrere appunto questo tratto che da Telese passava per Caiazzo; oppure che, dimorando a Capua sia venuto a visitare Caiazzo. Come Capua infatti, anche l’antica Caiazzo, occupava un posto eminente nella Storia, sia perché teatro di continue guerre, sia perché, frequentemente ricordata dai più illustri scrittori latini.

Ammessa dunque come storica la venuta di Costantino a Capua, tanto l’una che l’altra ipotesi, appare molto probabile.

Solo, un grave ostacolo, per al loro piena credibilità, potrebbe trovarsi nel fatto che, dopo Augusto, i Caiatini, si mostrarono sempre ossequienti verso gl’Imperatori Romani, dedicando ad essi nell’interno della città delle lunghe epigrafi, tuttora, una dedicata all’imperatore Traiano[8]; un’altra all’imperatore Adriano[9]; altre ancora secondo la testimonianza del De Simone[10] si leggevano, un tempo, in onore di Licinio Cesare, Diocleziano, Valerio Massimo etc.

Qual meraviglia adunque, si potrebbe obbiettare, se se ne trovi pure una in onore del grande Costantino?

Non nego che ciò sia vero: ed aggiungo pure che, nessuna meraviglia avrebbe prodotta in me la sua esistenza, se, come le altre, fosse stata scolpita su lastra di pietra o di marmo. Ma quell che mi ha spinto ad avanzare le due esposte ipotesi, è stato unicamente il fatto, di trovarla scolpita su di una colonna, non solo, ma su di una colonna quasi identica all’altra miliare.

Continuando adunque: a meno che non si voglia ritenere col Faraone che, sia stata posta tale colonna, lungo la strada Consolare, per ricordare che, proprio per opera di Costantino era stata essa ricostruita: - bisognerà, certo, fare buon viso alla mia logica opinione.

Che poi, realmente tale colonna, non facesse parte dell’antica Chiesa, e che, per conseguenza fosse stata adibita nella ricostruzione di essa, unicamente a sostegno dell’arco del Coro: si potrebbe desumere anche dal semplice fatto che, è collocata in modo che, buona parte dell’epigrafe citata, è nascosta nella fabbrica. Cosicché fu potuta leggere per intero dal De Vivo e dal Faraone, nel 1886, solo abbattendo parte della muratura in cui è incastonata.

Presentemente l’epigrafe è di nuovo ricoperta.

Certo, se fosse stata rinvenuta tra le rovine dell’antica Chiesa, non sarebbe stata trattata così male, nella ricostruzione della nuova.

 

***

 

Oltre questi due elementi frammentari, altri ancora se ne osservano, attualmente, nelle mura esterne dell’edifizio.

Ho già avuto infatti occasione di parlare, a lungo, dell’interessantissimo avanzo del sepolcro di Cecina Marciano: è inutile quindi ritornare sull’argomento. Noto ora, così di passaggio, che, un frammento perfettamente identico al precedente, trovasi murato in un parte esterna del transetto, e proprio in quella che guarda il mezzogiorno. – Non reca epigrafe alcuna: ma, non è improbabile che se ne trovi traccia nella parte opposta.

Sarebbe indispensabile adunque rimuoverla dal sito che occupa, non solo per poterla meglio esaminare, ma anche per evitare che le intemperie, al cui contatto, trovasi continuamente, esposta, non compiano addirittura la loro opera deleteria.

E questo rimedio bisognerebbe adottare pure per quella di Cecina Marciano già abbastanza danneggiata.

Altri due frammenti in pietra, che dovrebbero evidentemente, far parte di un’antichissima ed unica costruzione, si osservano: uno nel medesimo muro esterno del transetto, in prossimità del frammento citato; e l’altro in un muro di cinta del vicino cimitero.

 

***

 

BIFORE.

In tutto il vasto fabbricato addossato alla Chiesa, e che è stato sempre adibito per abitazione dell’eremita, addetto a custodia del Sacro Tempio – all’infuori di due graziose bifore, nulla vi è d’importante e che meriti perciò un cenno speciale: risultando l’insieme di una costruzione irregolare, messa su, senza ordine e senza criterio.

Mi limito dunque a far rilevare solo che, molto probabilmente, all’epoca della ricostruzione della Chiesa, rimonti solo quella parte che sorge sull’area stessa occupata dal transetto, dal coro e dalle cappelline laterali al coro stesso; e che tutto il resto debba ascriversi ad un’epoca molto posteriore. Quest’ultimo dato, si può facilmente, rilevare anche dalla semplice disamina dei materiali adoperati in tutto il complesso della costruzione. Per la parte più antica infatti, come del resto per tutta la Chiesa, non esclusa la torre campanaria, è adoperato il piperno; per la parte invece che io ritengo più recente, la pietra tufacea ordinaria.

Delle due bifore, che fanno parte, naturalmente, della costruzione antica, la più importante è, senza dubbio, quella che guarda il settentrione.

È costituita esternamente, da un arco ogivale, piuttosto depresso che misura, dalla base alla chiave, metri tre di altezza. Sono inscritti in esso due archetti trilobati che poggiano su di un piccolo capitello a piramide tronca, situato sul sommoscapo di una graziosa colonnina di marmo, della lunghezza di metri 1,13. Il tutto sormontato da un timpano a traforo. Quantunque di forme un po’ tozze, è senza dubbio, un tipo di bifora molto interessante, anche perché, per quanti confronti avessi potuti fare, non son riuscito a trovare altri esemplari, perfettamente identici.

Non meno interessante è l’altra bifora, situata dalla parte di mezzogiorno, quantunque di struttura più semplice e di proporzioni più meschine.

Nelle sue linee generali, è condotta sul tipo della precedente, manca però completamente di timpano. La colonnina mediana di un metro di altezza, è sormontata dal solito capitello a piramide tronca, al di sopra del quale è collocato una specie di pulvino che sostiene una trabeazione risultante di due pezzi di piperno di forma rettangolare.

 

***

 

Ed ora, prima di passare ad occuparmi della parte decorativa della Chiesa medesima, stimo opportuno rivolgermi una domanda: “È sorta, realmente, la Chiesa, quale ora si osserva, tutta d’un getto, oppure è stata ampliata in epoche differenti?

Certo, se si volesse seguire ciecamente la tradizione, bisognerebbe dividerla in tre parti, corrispondente ciascuna a tre epoche distinte e molto lontane l’una dall’altra.

La parte più antica sarebbe costituita dall’attuale Coro; il Transetto con le due Cappelline laterali al Coro, sarebbero state aggiunte dopo il 1330; la parte più recente abbraccerebbe tutta la Navata compreso il Pronao.

Per l’antichità del Coro sembra che inclini anche il Mommsen: parlando egli infatti[11] delle due colonne di pietra che sostengono l’arco del Coro stesso, e che egli riporta con i nn. 8307 – 8308, si esprime così: “N. 8307 columna ex lapide tiburtino… sustinens una cum 8308 arcum aediculae primarie Ecclesjae S. Martino a Marciano…”. Qui però, evidentemente, il Mommsen, più che la propria convinzione, esprime l’opinione del Faraone, il quale, pare che, anche ora, la pensi così: non saprei davvero stabilire in base a quali principi. Il Mommsen, è vero, avrebbe potuto correggere l’errore, avendo in seguito visitata la Chiesa, (come ho già avuto occasione di notare); ma forse non lo credette opportuno, perché a lui, più che la forma architettonica della Chiesa, interessava constatare l’esistenza e l’antichità delle due colonne.

L’ipotesi poi circa la 2° parte aggiunta dopo il 1330, non è altro che una legittima conseguenza della tradizione, da me riferita in principio, e cioè che il pio capitano “ampliò l’antica Chiesa decorandola con affreschi”.

Noto però subito, a tal proposito, che il vocabolo “ampliare” dev’essere qui inteso in un senso molto più largo: non si deve cioè ritenere che, alla parte primitiva rimasta intatta, siano state fatte delle aggiunte laterali, ma piuttosto che, sulle rovine dell’antica Chiesa, sia sorta la nuova, di proporzioni molto più vaste.

E finalmente, la 3° ipotesi, che cioè tutta la Navata col Pronao, sia stata aggiunta in epoca posteriore al 1334, e proprio ai principi del Seicento: fu vagheggiata la prima volta dal citato Parroco De Vivo, nella sua “Breve relazione su Santa Maria a Marciano”, che si conserva manoscritta, nell’archivio della Curia Vescovile di Caiazzo.

Le ragioni che indussero il Sig. De Vivo, a metter fuori tale inconsiderata ipotesi, dovettero essere evidentemente, due: il trovare cioè sulla porta d’ingresso lo stemma marmoreo di Mons. Acquaviva; e nell’interno della Chiesa, trovar sostituito, solo nella Navata, all’arco acuto, quello a tutto sesto, che è proprio del periodo del Rinascmento.

Che cosa ricordi lo stemma dell’Acquaviva, ho avuto già occasione di notarlo, nella parte storica: non credo quindi opportuno, aggiungere altro in proposito.

Per ciò che riguarda poi il 2° fatto: è purtroppo vero che tra le campate di cui risulta divisa l’area della navata, archi a tutto sesto, invece di quelli ad ogiva, poggiano su ampi pilastri di robustamento. Non è però questa, ragione sufficiente perché tutta la navata possa ascriversi ad epoca posteriore al Trecento.

Basta infatti esaminare con attenzione e criterio, la costruzione della navata, per scorgere subito al di sopra dell’arco tondo, che chiameremo di robustamento, l’arco acuto primitivo. Se poi, d’altra parte, si tien conto della forma speciale dei pilastri, dalla base molto ampia e addossati quasi alle pareti: si dovrà senz’altro conchiudere che, non la navata fu costruita ai principi del Seicento, ma bensì queste opere di robustamento.

La navata esisteva nel Seicento, ma la sua parte statica, doveva essere in serio pericolo: come si rileva facilmente, dalla esatta interpretazione delle parole di Monsignor Filomarino, ricordate innanzi. È da presumersi dunque che, per evitare una possibile catastrofe, si pensasse a rinforzarla – internamente – con l’aggiunzione di archi a tutto sesto a quelli ad ogiva, originari; ed esternamente, con la costruzione del Pronao, dalla parte di occidente; di un ampio zoccolo in muratura, dal lato di mezzogiorno, e dalla parte di settentrione poi, mediante l’ampliamento dell’antico Eremo.

Se dunque la Chiesa attuale, risulta nel suo complesso di un’unica forma architettonica;a che scopo spezzettarla in tante parti, di epoche differenti?

 

Giuseppe De Francesco

(continua)

 Archivi Storico              Home page

 

 



[1] Enlart, Origines Françaises de l’Architecture Gothuque en Italie, (Bibliothèque des Ecoles françaises d’Athenes et de Rome) Paris, Thorin, 1894.

[2] Enlart, op. cit.

[3] V. Filangieri Prof. Conte Ant., La Chiesa di S. Lorenzo Maggiore in Napoli, pag. 5.

[4] Filangieri, op. cit., p. 5.

[5] Enlart, op. cit.

[6] V. Filangieri, op. cit., p. 1.

[7] Storia delle due Sicilie, vol. 2°, p. 84.

[8] Il testo è il seguente.

Imp Caes. Divi – Nerve. F. Traiano – Aug. Calatini. P. S. P. P. O. E

[9] Fu scoperta dal Melchiori nel luogo ove sorgeva la fortezza della città. Il testo secondo è riportato dal Melchiori stesso e dal De Simone “De antiquo Statu Civitatis Calatiae” p. 20, era: Imp. Caesar. Divi – Traiani. Partici. Fil. – Divi. Nerve Nep. – Traianus. Adrianus. - … Rib. Post. V. Cos III Pwulterinis – Moribus. Exornavit. Pecunia. Sua.

[10] De Simone, op. cit., 20-21.

[11] Mommsen, Corpus Inscriptionum Latinarum, vol. X.